Il 9 aprile 2014 la Corte Costituzionale definisce “incostituzionale” il divieto alla fecondazione con donazione di gameti previsto dalla legge 40 del 2004 sulla Procreazione medicalmente assistita (PMA), riaprendo la possibilità per molte coppie con infertilità o sterilità assoluta, di poter accedere a questa tecnica al fine di realizzare l’obiettivo della genitorialità, si potrebbe pensare che molte di loro abbiano vissuto e vivano tutt’ora questa opportunità quasi con sollievo, ma la questione non è cosi semplice.
Una decisione complessa e spesso dolorosa
La decisione di ricorrere alla donazione di gameti è molto complessa, specialmente dal punto di vista emotivo, questa tecnica, infatti, si inserisce in una storia dolorosa, faticosa, spesso caratterizzata da numerosi fallimenti, è una tecnica inoltre che non cura l’infertilità, ma rappresenta un’alternativa e quindi la coppia si trova a dovere affrontare sia la perdita definitiva della propria fertilità, sia la perdita del legame genetico con il bambino, deve poi confrontarsi con il fatto che la gravidanza possa avvenire solamente con l’aiuto esterno di un donatore o di una donatrice. Per questi motivi quando il medico propone la donazione di gameti, molte di loro rifiutano questa possibilità. In seguito però, trascorso del tempo e sentendo ancora forte il desiderio di genitorialità, si trovano disponibili a fare qualcosa a cui non avrebbero mai pensato prima. Interrogandosi sul significato dell’essere genitori danno voce al concetto di accudimento , di responsabilità, di cura, valori che, specialmente nelle donne, sono già insiti nella loro idee di essere madri e che trascendono l’ordine biologico per accedere ad un modello genitoriale, ormai socialmente condiviso, in cui sia la relazione e non i geni a garantire il legame affettivo (Lillehammer, 2014). Arrivare a questa consapevolezza però, non significa non nutrire dubbi e timori. Alcuni persistono per tutto il percorso e sono condivisi da gran parte delle coppie.
Le paure e i dubbi più comuni
Ad esempio la paura che il bambino non somigli fisicamente al genitore. È chiaro, ricorrere alla donazione di gameti significa rinunciare alla possibilità che il bambino somigli fisicamente al genitore non genetico. Ma perché c’è questo bisogno che il proprio figlio somigli ai suoi genitori? Probabilmente perché la somiglianza fisica sembra conferire un senso di appartenenza, la dimostrazione a se stessi o agli altri che il figlio sia proprio, per alcune coppie può rappresentate un riscatto verso sé stessi, si cerca pertanto di far diventare il proprio figlio ciò che non si è potuti diventare, ma, fermo restando che nemmeno un concepimento naturale garantisce una somiglia fisica con il genitore, poiché le possibilità di combinazioni dei geni sono infinite, è necessario comprendere che non basta riconoscersi nei tratti fisici del proprio figlio per sentire convalidato il proprio ruolo genitoriale, lo stesso concetto di somiglianza poi, non si esaurisce con le caratteristiche fisiche, ma si arricchisce di aspetti espressivi, gestuali e comportamentali che non sono determinati dalla genetica, ma dalla naturale tendenza dei bambini nei loro primi anni di vita a riprodurre i comportamenti e gli atteggiamenti dei genitori attraverso la semplice imitazione (Bandura, 1967).
Un altro timore comune nelle coppie che ricorrono alla donazione di gameti è quello di non riuscire a sentire il bambino come proprio, questo aspetto è principalmente legato all’idea del donatore o della donatrice che ha contribuito al concepimento. In questo percorso ci sono due certezze, donare i propri gameti non rende genitori, e il bambino che verrà al mondo è di certo il bambino della coppia che l’ha desiderato, che l’ha pensato e che ha permesso la sua nascita. Inoltre, gli studi longitudinali condotti con l’obiettivo di valutare l’andamento delle famiglie nate da donazione di gameti hanno evidenziato un buon funzionamento familiare complessivo, escludendo quindi la possibilità di effetti negativi sulla qualità della relazione tra genitori e figli in assenza di un vincolo genetico (Golombok, et al., 2011a; Golombok, et al., 2013 ). Quelli che erano quindi i timori iniziali, perdevano di significato con il procedere dell’esperienza genitoriale, è chiaro che l’intervallo di tempo in cui questo avviene non può essere considerato uguale per tutti, alcune mamme iniziano a percepire l’infondatezza delle proprie paure già durante la gravidanza, altre hanno bisogno di più tempo, ma questo è ciò che accade anche ai genitori che sono geneticamente legati ai loro bambini, l’amore per un figlio e l’adattamento al ruolo genitoriale possono richiedere del tempo per consolidarsi, non è detto che sia tutto immediato già alla nascita.
Un terzo aspetto molto dibattuto riguarda il dire o non dire al bambino come è stato concepito e se sì quando e in quali modalità. Affrontare questo argomento , significa prima di tutto saperlo inquadrare all’interno del panorama socio-culturale attuale. Negli ultimi venti anni, infatti, il tema della donazione di gameti si è spostato da un atteggiamento di chiusura ad uno di maggiore apertura, questo ha portato alcuni paesi a modificare le relative legislazioni abolendo l’anonimato del donatore e a far si che alcune commissioni etiche si esprimessero in favore della rivelazione al bambino delle sue origini genetiche (ASRM,2014;HFEA,2008), di conseguenza anche gli esperti si sono trovati a cambiare radicalmente parere riguardo l’opportunità di dirlo, sostenendo il diritto del bambino di conoscere le sue origini genetiche, la necessità di creare un solido legame tra genitori e figli centrato sulla trasparenza, apertura e onestà e l’importanza che il bambino possa crescere con un senso di identità chiaro. Questo cambiamento ha indubbiamente permesso ai genitori di sentirsi più a loro agio nel processo divulgativo, ma è anche vero che molto spesso avere intenzione di rivelare ai propri figli la natura del loro concepimento, non implica necessariamente il farlo. Le preoccupazioni delle coppie sono ben note: timore di essere rifiutati dai figli, di perdere la loro fiducia, di inserire nella loro vita un elemento di stress capace di alterare il loro equilibrio psicologico.
Guido Pennings, un noto professore di etica e bioetica dell’Università di Ghent, afferma che da tutti gli studi condotti con l’obiettivo di valutare il benessere emotivo e la qualità delle relazione tra genitori e figli confrontando quelli a cui era stata rivelata la natura del concepimento con quelli a cui non era stato detto nulla, non sono emerse differenze significative in termini di qualità del legame genitoriale, qualità della relazione madre-bambino, funzionamento globale della famiglia e adattamento psicologico in età adolescenziale (Pennings,2017). È chiaro quindi che nessun psicologo e nessun esperto in materia possa obbligare una coppia a dire o a non dire al proprio figlio che è nato da donazione di gameti, è però moto importante che ciascun coniuge sia consapevole delle conseguenze dell’una o dell’altra decisione, questo significa incoraggiare la coppia a mantenere un atteggiamento di totale onestà: è chiaro che non bisogna usare la preoccupazione che il bambino possa essere confuso o sconvolto dalla notizia, come una scusa per coprire ansie e paure che in realtà appartengono solo ai genitori e non hanno niente a che vedere con il figlio e con il suo bene, questo specialmente quando dietro la scelta di non dirlo si cela la paura del pregiudizio. L’infertilità è una patologia di cui non si ha colpa e della quale non ci si debba vergognare, cosi come la decisione di ricorrere alla donazione di gameti è una scelta personale e in quanto tale indipendente da eventuali aspettative esterne. Sviluppare questa consapevolezza, significa possedere anche la serenità necessaria per decidere se rivelare o no la modalità di concepimento al proprio figlio. Inoltre il segreto a volte sembra la strada più semplice, ma non è detto che lo sia, in parte per il clima emotivo che si genera intorno e poi perché c’è sempre il rischio che il bambino lo possa scoprire accidentalmente e questo andrebbe sia a compromettere il suo senso di identità, poiché penserebbe che tutto quello che ha sempre saputo di se stesso era in realtà falso, sia a minare il rapporto di fiducia riposto nei genitori.
Chi invece è a favore della divulgazione e vorrebbe condividere l’informazione con il proprio figlio, perché desidera un clima di apertura e trasparenza all’interno della propria famiglia e e perché ritiene che il segreto possa rappresentare una macchia scusa nell’identità del bambino ha dei dubbi su come e quando farlo. Alcuni scelgono la strategia del “seed planting” e quindi di dirglielo subito in modo tale che non ricorderà un momento in cui non sapeva, altri quella del “right time”, preferiscono quindi aspettare un’età appropriata in cui il bambino possa capire il significato di quanto gli viene detto (Mc Dougall,2007). Anche qui non esiste il momento ideale se non quello ritenuto piò opportuno dalla coppia, è comunque preferibile scegliere un’età che sia inferiore a quella adolescenziale, in quanto alcuni studi hanno riscontrato maggiori reazioni negative da parte dei ragazzi che chiaramente trovandosi ad attraversare una fase della crescita già di per sé critica potrebbero reagire con ostilità o confusione. Con i bambini piccoli si può cominciare a quattro anni, età in cui iniziano a capire che non sono sempre esistiti ma che ad un certo punto sono nati, con un linguaggio chiaramente adatto all’età, sarà importante quindi parlare di donatore per indicare la persona che ha donato il seme o gli ovociti che hanno consentito a qualcun altro di avere un figlio. Un tipo di racconto per bambini cosi piccoli può essere questo: “per fare un bambino ci vogliono l’ovetto di una mamma e il semino di un papà, l’ovetto della mamma era rotto e quindi una signora gentile che si chiama donatrice le ha regalato il suo, non abbiamo mai incontrato la signora che ci ha regalato il suo ovetto , non lo conosciamo e non vivrà mai con noi, ma le saremo sempre grati, perché ci ha permesso di averti” (Montuschi, 2004).
In conclusione
Scegliere di ricorrere alla donazione di gameti è una decisione complessa dove la coppia è chiamata a soffermarsi sul desiderio di avere un figlio e a domandarsi se questo possa essere ugualmente soddisfatto anche in assenza del legame genetico, scegliere questa strada significa aprirsi a dubbi e paure, significa sapersi riconoscere in un ruolo genitoriale che sia relazionale, significa infine sapersi adeguarsi all’idea del donatore, questo per poi ammettere l’atto che del dono che ha dato origine alla vita, cosi se in seguito l’intenzione di quella coppia diventata poi famiglia sarà di narrare al bambino le sue origini, il messaggio che potrà arrivare a quel bambino prima ancora di domandarsi “chi sono io”, sarà che sicuramente è nato da genitori che l’hanno fortemente voluto e desiderato.
Riferimenti bibliografici
1.Bandura, A. Behavioral psychotherapy. Scientific American; 1967 216(3), 78–86. https://doi.org/10.1038/scientificamerican0367-78
2.Golombok S. Blake L. Casey P. Roman G.Jadva V. Children born through reproductive donation: A longitudinal study of child adjustment. J. Child Psychol. Psychiat. 2013; 54: 653-660https://doi.org/10.1111/jcpp.12015
3.Golombok S. Readings J. Blake L. Casey P. Mellish L. Marks A. et al.Children conceived by gamete donation: The impact of openness about donor conception on psychological adjustment and parent-child relationships at age 7. J. Fam. Psychol. 2011; 25: 230-239 DOI: 10.1037/a0022769
4..Lillehammer, H. Who cares where you come from?: Cultivating virtues of indifference. In T. Freeman, S. Graham, F. Ebtehaj, & M. Richards (Eds), Relatedness in assisted reproduction: Families, origins and identities. 2014; (pp. 97-112). Cambridge: Cambridge University Press. https://doi.org/10.1017/CBO9781139814737.007
5.Montuschi O. “Telling and talking. Telling and talking about Donor conception with 0-7 years old . A guide for parents”. Donor Conception Network (2006)
6.Pennings G. Disclosure of donor conception, age of disclosure and the well-being of donor offspring Human Reproduction, 2017 Volume 32, Issue 5, May 2017, Pages 969–973, https://doi.org/10.1093/humrep/dex056