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Su Adnkronos salute intervista di Barbara Di Chiara alla Dottoressa Gemma Fabozzi sulla relazione tra plastica e rischio di infertilità. Per sapere com’è possibile ridurre i rischi leggi l’articolo che riportiamo per esteso

La biologa, ‘plastica minaccia fertilità, ecco come ridurre i rischi’

Contiene Bpa e ftalati, interferenti endocrini presenti in oggetti di uso comune

 

di Barbara Di Chiara

Contenitori per il cibo, piatti, bicchieri. Ma anche tappetini per le palestre e guanti monouso nei supermercati. Gli oggetti di uso comune in plastica possono rappresentare un rischio per la salute, in primis per la fertilità. “Sempre più studi scientifici mostrano che la salute riproduttiva è influenzata dai cosiddetti ‘interferenti endocrini’, ossia sostanze chimiche sia naturali che sintetiche presenti nell’ambiente che possono mimare, interferire o bloccare la normale attività ormonale di un individuo”. E di ‘endocrine distruptor’ la plastica è ricca: “Soprattutto Bisfenolo A e ftalati“, spiega all’Adnkronos Salute Gemma Fabozzi, ricercatrice embriologa del centro Genera e responsabile del centro salute donna B-Woman di Roma.

“Il bisfenolo A (Bpa) – evidenzia l’esperta – è uno degli interferenti endocrini più conosciuti e studiati. E’ comunemente usato per la produzione delle plastiche in policarbonato, per attrezzature sanitarie, compositi dentali, lenti a contatto, lenti per occhiali, giocattoli, supporti di memorizzazione e pellicole per finestre ma, soprattutto, il Bpa è uno dei materiali a contatto con gli alimenti, poiché viene utilizzato per la fabbricazione di materiali plastici come imballaggi, utensili da cucina e pareti di lattine per isolare il cibo dal metallo, impedendone la corrosione. Purtroppo, nel 2007 è stato dimostrato che il Bpa può migrare da questi utensili penetrando negli alimenti durante il contatto. È stato anche dimostrato persino che il Bpa potrebbe essere rilasciato dai biberon. Inoltre, è stato scoperto che tutte le operazioni come il lavaggio o il riscaldamento possono stimolare il rilascio di Bpa e di conseguenza causare un aumento della sua concentrazione negli alimenti”, assicura Fabozzi.

“Il Bpa – spiega l’esperta – è simile agli estrogeni e ha la capacità di interagire con i recettori di questi ormoni, stimolarne e alterarne la produzione. Numerosi studi hanno dimostrato che il Bpa ha effetti tossici sia per l’apparato riproduttivo femminile, a livello dell’ovaio e utero, che per quello maschile, a livello della prostata, anche con dosi al di sotto della soglia di sicurezza. In particolare, gli effetti avversi sulle ovaie e sull’utero sono stati confermati sia da studi epidemiologici che da studi su modelli animali, sia in vivo che in vitro: le donne sterili hanno livelli di Bpa più elevati rispetto alle donne fertili. Inoltre, diversi studi hanno messo in luce che il Bpa potrebbe svolgere un ruolo importante nella patogenesi dell’endometriosi e della sindrome dell’ovaio policistico, importanti cause femminili di infertilità. Nell’uomo sono stati dimostrati effetti negativi del Bpa sulla qualità degli spermatozoi in termini di numero, motilità e morfologia oltre che a ridotto desiderio sessuale e aumento di disfunzioni erettili e difficoltà ad eiaculare”.

Altra minaccia è rappresentata “dagli ftalati, sostanze chimiche sintetiche utilizzate in molti oggetti di consumo, inclusi prodotti per la cura della persona, e come eccipienti nei farmaci e negli integratori alimentari. Come plastificanti, gli ftalati sono presenti in pavimenti, coperture, moquette, tende da doccia, imballaggi per alimenti e bevande, parti automobilistiche e persino nei giocattoli per bambini. Come matrici e solventi, gli ftalati si trovano nei cosmetici che vanno da spray per capelli e profumi a pesticidi, adesivi e lubrificanti. Come eccipienti, sono incorporati nel rivestimento dei farmaci orali e negli integratori alimentari che vanno da alcuni oli di pesce ai probiotici. E anche gli ftalati, così come il Bpa, agiscono da interferenti endocrini ripercuotendosi in modo negativo soprattutto sul sistema riproduttivo, sia maschile che femminile”.

“Se da una parte le evidenze scientifiche mostrano gli effetti negativi dell’esposizione a sostanze tossiche come Bpa e ftalati – dice Fabozzi – la buona notizia è che ognuno di noi può modificare il proprio stile di vita riducendo l’esposizione a tali sostanze. Ecco alcuni accorgimenti utili”:

1) Eliminare la plastica dalla cucina: contenitori per il cibo, piatti, bicchieri, mestoli e altri utensili, soprattutto quelli che si utilizzano a diretto contatto con fonti di calore, ad esempio i mestoli.

2) Evitare di lavare la plastica con acqua troppo calda o detergenti aggressivi: la plastica usurata perde maggiormente sostanze chimiche tossiche. Preferire il lavaggio a mano in acqua fredda e non usarli mai nel microonde o con cibi e bevande troppo caldi anche se riportano la dicitura ‘Bpa free’.

3) Fate attenzione ai cibi delle rosticcerie/pizzerie che consegnano cibo in contenitori di plastica. Alcuni studi hanno dimostrato che le persone che mangiano più spetto questa tipologia di alimenti presenta in media livelli più alti di Bpa nel sangue. La scelta migliore per la propria salute resta sempre preparare il cibo a casa e portarlo con sé in contenitori di vetro.

4) Attenzione al consumo di cibo in lattina. Es. pomodori, legumi, frutta etc. Il Bpa è una delle componenti che riveste le lattine e quanto più l’alimento è acido, maggiore è la probabilità che il Bpa migri nel cibo.

5) Attenzione a maneggiare carta termica come scontrini, fax etc.: si tratta di un’ulteriore fonte di Bpa, per cui, è bene lavarsi le mani il prima possibile dopo averli toccati.

6) Attenzione a tutto ciò che è fatto con la plastica morbida, esempio il polivinilcrolide o Pvc: di solito contiene ftalati. Ecco alcuni esempi: tovagliette per la tavola e tappetini delle palestre che possono rilasciare ftalati nell’aria pronti all’inalazione, oppure confezioni degli alimenti che a contatto diretto con il cibo lo trasmettono per via diretta, come cibo confezionato nella plastica trasparente oppure i guanti monouso che in alcuni negozi vendono utilizzati per maneggiare il cibo.

FONTE: AdnKronos SALUTE

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Vi riportiamo per esteso l’intervista alla alla Dr.ssa Valentina Berruti, Psicologa e Psicoterapeuta del centro B-Woman, pubblicata il 14 gennaio su Periodo Fertile

La procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti. L’amore al di là della genetica

L’infertilità è una esperienza molto complessa e dolorosa che spesso non viene compresa appieno da chi non l’ha vissuta sulla propria pelle.

Freud diceva che la generatività è la volontà dell’individuo di sopravvivere alla morte.

Per questo motivo molte coppie infertili decidono di affidarsi  alla procreazione medicalmente assistita (PMA)  per darsi l’opportunità di diventare genitori grazie all’aiuto della scienza. Il percorso però non è facile.

Le percentuali indicate nel registro nazionale della PMA dell’Istituto Superiore di Sanità  ci dicono che nel  2017, nelle pazienti con età inferiore ai 34 anni la probabilità di ottenere una gravidanza è stata del 12,4% sui cicli iniziati e del 13,7% sulle inseminazioni effettuate, mentre nelle pazienti con più di 42 anni la percentuale scende rispettivamente al 3,8% ed al 4,3%.

Da un punto di vista psicologico chi è infertile ha quindi  vari lutti da superare.

Il primo è quello della propria infertilità che fa sentire questi pazienti inadeguati, soli e diversi rispetto a chi riesce ad avere figli in maniera naturale.

Un secondo problema si presenta quando la coppia viene a scoprire che l’unico modo per ottenere una gravidanza è attraverso la fecondazione eterologa con donazione di uno o di entrambi i gameti.

In questo caso, infatti, oltre al lutto per l’infertilità si unisce il lutto biologico dovuto all’impossibilità di avere un legame genetico con il proprio figlio.

Come si può affrontare quindi un’esperienza così difficile?

La prima cosa da fare è ricordare ai pazienti che si può essere generativi anche nell’infertilità. Si può affrontare questo percorso come una crescita interiore che, anche se può sembrare assurdo, può essere profondamente arricchente indipendentemente dal risultato che si riuscirà ad ottenere.

Si può quindi affrontare questo viaggio con resilienza cercando di reagire in maniera positiva ad un evento che per sua natura si dimostra profondamente stressante.

Fondamentale in questi casi è cercare di parlarne con chi sta vivendo la stessa esperienza senza sentirsi in colpa o avere vergogna per quello che si sta vivendo perché l’infertilità è una condizione di cui non si è responsabili.

In questi casi un percorso psicologico risulta fondamentale proprio per tirare fuori tutte le paure e far si che si arrivi alla scelta finale con consapevolezza e serenità.

Come psicoterapeuta che si occupa di sostenere le coppie infertili, quando incontro una coppia che ha dei timori sulla scelta di una fecondazione eterologa, la prima cosa che faccio è quella di dirgli che il mio compito non è quello di convincerli a scegliere una tecnica piuttosto che un altra, ma quello di analizzare le loro resistenze, le loro paure per fare in modo che siano davvero consapevoli e artefici della propria scelta.

I dubbi delle coppie che si preparano ad affrontare un percorso di fecondazione eterologa

I dubbi che le coppie mi riportano in stanza di terapia sono i seguenti:

La paura di non sentire proprio il bambino

In questi casi cerco di ampliare la visione della coppia spiegando che la genitorialità è relazionale e non genetica e che l’amore verso un’altra persona non è influenzato dai geni. Ad esempio si ama il proprio compagno o marito eppure con lui non si ha un legame biologico.

La paura che il bambino non ci somigli.

Questo timore è molto comune ma se ci pensiamo bene anche chi è nato senza fare fecondazione assistita può non somigliare ai propri genitori.

Oltretutto è bene introdurre il concetto di epigenetica che non è altro che “la trasmissione di tratti e di comportamenti senza cambiamenti della sequenza genica” (Di Mauro 2017).

In pratica quello che si passa al figlio nato da eterologa sono i nostri sistemi di valori, i miti familiari, il modo di cucinare, il modo di parlare che fanno parte del nostro sistema familiare ecco perché quel bambino alla fine in qualche modo ci somiglierà.

Oltretutto io credo che sia importante dare amore al proprio figlio poi se ci somiglierà, oppure no, non è importante perché la condivisione delle proprie diversità non potrà che essere un’esperienza valorizzante sia per i genitori che per i figli.

La paura dei pregiudizio che il figlio potrebbe subire perché nato da donazione di gameti

Quando in stanza di terapia mi riportano questo timore cerco di far ragionare la coppia su un fatto concreto.

Tutti noi da bambini, ma anche da grandi, subiamo dei pregiudizi. Noi viviamo nell’epoca del protezionismo dei figli ma la cosa più importante che si può insegnare a un figlio è proprio quella di dargli gli strumenti per  fronteggiare le difficoltà che si subiscono naturalmente nel percorso di crescita di ciascuno di noi.

La paura se rivelare o meno al figlio com’è nato

Questo è un timore molto ricorrente ma la letteratura è molto chiara sui segreti familiari. I figli infatti riescono a sentire anche il non detto e i segreti vengono  percepiti come qualcosa di maggiormente terribile di quello che sono.

Nella mia pratica clinica ho incontrato spesso famiglie con segreti tramandati di generazione in generazione che però venivano percepiti attraverso l’espressione di un disagio di uno o più membri del sistema familiare che si veniva a interrompere proprio quando il segreto veniva rivelato.

Poco tempo fa ho intervistato una ragazza nata da fecondazione eterologa negli anni ’80 la quale mi diceva che il problema non era stato sapere di essere nata con donazione di gameti ma di averlo saputo a 21 anni.

Già dai 3 anni infatti si possono cominciare a raccontare delle favole ai propri figli che percepiranno che la loro nascita è avvenuta per un gesto di amore e soprattutto che la loro nascita non è un’esperienza della quale vergognarsi.

Oltretutto non rivelare ai propri figli come sono venuti al mondo gli toglierebbe dalla possibilità di imparare una cosa fondamentale: nella vita possono accadere delle cose terribili, come l’infertilità, ma che con la capacità di reagire in maniera resiliente si possono superare molte difficoltà e i sogni possono avverarsi.

Per tutte queste ragioni non rivelare questo aspetto toglierebbe al figlio la possibilità di apprendere un insegnamento molto positivo.

Ecco non vi sembra che anche un’esperienza di infertilità possa essere trasformata in qualcosa di fertile?

Nella vita infatti possono accaderci cose davvero difficili ma sta a noi decidere se utilizzare queste esperienze in modo costruttivo o distruttivo.

Si può quindi amare un figlio al di là del legame genetico? La risposta è si.

Non è infatti il legame genetico a definire la genitorialità ma è la relazione a definire i legami tra le persone.

La genitorialità è infatti una condizione psichica di maturità che ci predispone ad amare e a prenderci cura di un altro essere umano senza volere niente in cambio e questa capacità è indipendente dal fatto che ci sia un legame genetico con il proprio figlio e si sviluppa soltanto se si è lavorato sulle resistenze che una tecnica come la procreazione medicalmente assistita comporta.

Dott.ssa Valentina Berruti Psicologa e Psicoterapeuta del centro B-Woman per la salute della Donna

FONTE: Periodo Fertile

 

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Lo stile di vita come influenza la fertilità della donna?

Vi riportiamo per esteso l’intervista alla Dr.ssa Gemma Fabozzi, pubblicata oggi 10 gennaio su Periodo Fertile

A cura della Dott.ssa Gemma Fabozzi

Sempre più studi scientifici dimostrano come la salute di un individuo sia strettamente correlata al suo stile di vita e le più recenti evidenze mostrano come lo stile di vita sia di fondamentale importanza in particolar modo per la propria salute riproduttiva.

Ma quali sono i fattori dello stile di vita che potrebbero condizionare il potenziale riproduttivo femminile?

Ecco qualche consiglio della Dottoressa Gemma Fabozzi, Embriologa e Nutrizionista del centro B-Woman per la salute della Donna, per chi è alla ricerca di una gravidanza spontanea o mediante fecondazione assistita, alla luce delle ultime evidenze scientifiche pubblicate in letteratura.

Attività fisica: sì ma senza esagerare

Un’attività fisica moderata sembra essere correlata a percentuali di gravidanza più alte specialmente in donne sovrappeso, al contrario, un’eccessiva attività fisica sembra essere controproducente. Infatti, le donne che si allenano quotidianamente praticando sport che richiedono particolari sforzi hanno un aumento del rischio di infertilità di 2,3–3 volte (1). Questo può essere dovuta a molteplici fattori. Innanzitutto, l’eccessiva attività fisica genera una carenza energetica necessaria per il mantenimento della funzionalità ovarica, motivo per cui nella maggior parte dei casi si ha un’interruzione del ciclo mestruale (1). In secondo luogo si ha un aumento del cortisolo, definito anche ormone dello stress, che potrebbe avere un ruolo nell’eziopatogenesi della sub fertilità agendo sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (2).

Consiglio: Scegli un’attività da svolgere moderata come ad esempio lo Yoga, perfetto non solo per tonificare la muscolatura, migliorare l’elasticità del corpo e la postura, ma anche per migliorare la circolazione sanguigna, l’ossigenazione degli organi e favorire la loro funzione e detossificazione. E ricorda: attività fisica non è sinonimo di attività sportiva. Per manterere il nostro benessere psicofisico non bisogna andare per forza in palestra, basta prendere un po’ meno la macchina e smettere di usare l’ascensore camminando tutti i giorni per almeno 1 ora a piedi senza affaticare il nostro organismo e sottoporlo a stress inutili.


Limitare il consumo di caffé e caffeina

La caffeina è uno stimolante del sistema nervoso centrale ed è stato dimostrato che il suo consumo può influire sulla salute riproduttiva influenzando i livelli degli ormoni circolanti. Ad esempio, è stato dimostrato da diversi studi che un’eccessiva assunzione di caffeina è correlata a bassi livelli di estrogeni circolanti (3-6), un fenomeno che potrebbe essere dovuto al fatto che la caffeina e l’estradiolo sono entrambi metabolizzati dall’enzima epatico CYP1A293,94, ma anche dal fatto che chi consuma maggiormente caffeina presenta aumentati livelli di una proteina che lega gli ormoni sessuali chiamata SHBG (sex hormone buinding protein) che li trasporta in forma inattiva nel circolo sanguigno (7-9). Inoltre, è stato riportato da due diversi studi di meta-analisi che un consumo elevato di caffeina preconcepimento è associata a un piccolo ma significativo aumento del rischio di aborto spontaneo (SAB) (10, 11).

Consiglio: Limita il consumo di caffeina giornaliero a 200mg, pari a 2 caffè al giorno, così come raccomandato dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) per le donne che desiderano concepire (12). Ma attenzione! La caffeina non è presente solo nel caffè ma anche in molte bevande come tè e bibite gassate, ma anche in alcuni alimenti di origine industriale ed alcuni farmaci.


Smettere di fumare

Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato come il fumo abbia un impatto dannoso sulla fertilità delle donne sia nel caso di concepimento spontaneo che mediante fecondazione assisita, evidenziando che nei fumatori l’incidenza dell’infertilità è maggiore e il tempo necessario per il concepimento è aumentato rispetto ai non fumatori (13).

Inoltre è stato dimostrato che Ii fumo è associato ad un aumento di aborto spontaneo, sia in caso di concepimento spontaneo che assistito (14-16), e di gravidanza ectopica (17,18).

Il fumo sembra influire negativamente anche sulla recettività endometriale. Infatti, è stato riportato in letteratura che anche nel caso di fecondazione assistita con donazione di ovociti le pazienti fumatrici hanno tassi di gravidanza inferiori rispetto alle non fumatrici (19) e che le donne fumatrici presentano uno spessore dell’endometrio inferiore rispetto alle non fumatrici il giorno del transfer embrionale (20).

In fine, è stato dimostrato che il fumo può accelerare la perdita della funzione riproduttiva della donna anticipando la menopausa di 1-4 anni (21-24)

Consiglio: Come raccomandato anche dall’American Society for Reproductive Medicine, le donne che cercano una gravidanza dovrebbero assolutamente smettere di fumare e cercare di evitare l’esposizione al fumo passivo in quanto è ormai comprovato che anche i non fumatori, se eccessivamente esposti al fumo, possono avere conseguenze riproduttive paragonabili a quelle dei fumatori. (25). Questo, non solo per avere maggiori probabilità di concepire e portare a termine la gravidanza e tutelare la salute della mamma, ma anche per tutelare la salute futura del bambino. Infatti, è stato dimostrato che smettere di fumare prima e durante la gravidanza consentirebbe di ridurre di gran lunga il rischio di morte in culla (Sids) del bambino (26).


Smettere di bere alcolici

Che il consumo materno di alcool durante la gravidanza possa avere effetti negativi sul bambino, in particolare sullo sviluppo del cervello, è stato già ampliamente dimostrato. Ma quello che sembra emergere da ultimi studi condotti è che l’assunzione di alcool nel periodo preconcezionale sembra avere un effetto negativo sulla fertilità L’alcool, infatti, può interferire con il funzionamento delle ghiandole che regolano la produzione degli ormoni sessuali e può causare una riduzione della fertilità sia nell’uomo che nella donna.

Ad esempio, è stato dimostrato che le donne che consumano alcool immediatamente prima dell’inizio (e durante) un trattamento di fecondazione assistita presentano un aumento del rischio di aborto spontaneo e una riduzione della probabilità di rimanere incinta, nonostante un’assunzione di alcool relativamente bassa (in media di 6,1 e 7,1 gr/d, rispettivamente) (27).

Inoltre, è stato osservato che le donne che consumano più di 50 g di alcool alla settimana, presentano livelli di E2 più bassi e minori percentuali di fertilizzazione (28). Nb. Un bicchiere piccolo di vino (125 ml) contiene in media 12 gr di alcool.

Consiglio: Poiché non esistono livelli di consumo alcolico privi di rischio, le donne che sono alla ricerca di una gravidanza dovrebbero cautelativamente astenersi dal bere alcool.


Controllare il peso

Molti studi dimostrano che sia le donne in sovrappeso (BMI 25–29,9) che le donne sottopeso (BMI<19) hanno un rischio simile di infertilità (29).

SOVRAPPESO: è stato dimostrato che le donne in sovrappeso presentano percentuali di gravidanza e di bambini nati vivi inferiori rispetto alle donne normopeso (30-35) e che, in particolare, le donne francamente obese (BMI>30) hanno un rischio di problematiche ovulatorie più di due volte maggiore (36, 37).

SOTTOPESO: e’ stato dimostrato che le donne sottopeso (BMI <19 kg / m2) impiegano una durata di tempo quattro volte più lunga rispetto alle donne normopeso. In particolare, le donne sottopeso impiegano in media 29 mesi per concepire rispetto ai 6,8 mesi nelle donne con un peso normale [37, 38]. Ciò accade poiché nel momento in cui si ha una carenza energetica, il nostro organismo sfrutta le poche risorse che ha per mantenere in funzione i nostri organi vitali, a scapito degli organi deputati ad altre funzioni come quelli riproduttivi (fontana). Questo è il motivo per cui, in condizioni di deficit energetico e di massa grassa, la funzione ovarica viene meno.

Consiglio: Ritrovare il peso-forma aiuta la fertilità. Se sei in sovrappeso o sottopeso, evita le diete fai da te che rischiano di creare danni peggiori. Rivolgiti ad un nutrizionista esperto per ritrovare il tuo peso ideale prima di iniziare la ricerca di una gravidanza, sia spontanea che mediante procreazione assistita. Ti aiuterà a regolarizzare i cicli mestruali e migliorare le tue chances riproduttive


Prestare attenzione all’alimentazione

Sempre più studi scientifici dimostrano quanto l’alimentazione possa influire sul tempo necessario al raggiungimento della gravidanza, sia in modo naturale che mediante fecondazione assistita. Per quanto riguarda la fertilità in generale, è stato riportato che l’alimentazione può diminuire il rischio d’infertilità dovuta a problematiche ovulatorie (39).

È stata dimostrata anche la correlazione tra dieta mediterranea e fertilità, in quanto donne che hanno questo tipo di alimentazione dimostrano di avere meno difficoltà nell’ottenimento di una gravidanza (40) mentre coloro che mangiano più di frequente cibi spazzatura “fast food” e poca frutta e verdura, impiegano mediamente un periodo più lungo più lungo per diventare mamme (41).

Diversi studi hanno sottolineato il ruolo chiave del pesce per l’ottenimento di una gravidanza, in particolare se contenente grassi polinsaturi ω-3 (42,43). Uno studio ha dimostrato che le coppie in cui entrambi i partner più pesce hanno una fertilità maggiore del 61% e un’incidenza dell’infertilità inferiore del 13% rispetto alle coppie che consumano meno pesce (44).

Un altro aspetto importante sembra essere rappresentato dall’omeostasi del glucosio e della sensibilità all’insulina (45). È stato ampliamente dimostrato, infatti, che un eccesso di zuccheri circolanti interferirebbe con la funzione ovarica nelle donne, nello specifico, con la produzione ovarica di androgeni, confermando il loro ruolo degli zuccheri nella patogenesi della sub-fertilità in particolare nelle donne con sindrome dell’ovaio policistico (46-50).

Anche l’alimentazione durante un percorso di fecondazione assistita sembra avere un ruolo importante per l’ottenimento di una gravidanza (51-53). È stato riportato, infatti, che anche in questo caso una dieta di tipo “Mediterraneo” (verdure e oli vegetali, pesce e legumi, bassa assunzione di snack) prima e durante un percorso di fecondazione assistita è associata ad una maggiore probabilità di gravidanza, correlazione che invece non sembra esserci con una dieta “salutare”, con alimenti poco processati (es. frutta, verdura, legumi, cereali integrali e pesce, bassa assunzione di maionese, snack e carne) ma comunque non di tipo “mediterraneo”,  mettendo in luce il ruolo chiave dell’olio extravergine d’oliva, uno degli alimenti cardine della dieta Mediterranea, per la fertilità.

Consiglio: Segui un’alimentazione bilanciata, ricca di grassi monoinsaturi (es. olio d’oliva) e grassi polinsaturi ω-3 (contenuti in avocado, salmone, frutta secca) limitando i grassi trans presenti soprattutto nei grassi idrogenati, contenuti principalmente nei prodotti di origine industriale (Margarine, merendine, snack, salatini, prodotti surgelati (pesce panato, patatine, etc), dadi da brodo, preparati per minestre, cibi dei “fast-food”, pop-corn in busta, etc. Consuma molto pesce fresco, privilegiando quello azzurro e di piccolo taglio, che avrà minor probabilità di essere contaminato da metilmercurio. Non aver paura di utilizzare l’olio d’oliva che non fa ingrassare, anzi è un potente antiossidante che può essere di grande aiuto per la tua fertilità. Piuttosto, limita il consumo degli zuccheri semplici, prestando più attenzione al carico glicemico complessivo dei pasti, evitando picchi di glicemia (livelli di zucchero nel sangue) e quindi di insulina, (ormone prodotto dal pancreas per abbassare i livelli di zuccheri circolanti).

Fonte: Periodo Fertile intervista alla Dr.ssa Gemma Fabozzi

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Intervista alla Dr.ssa Federica Faustini su “La Repubblica” – “No, di mamma non ce n’è una sola”

E’ giusto raccontare ai bambini nati con la fecondazione eterologa la verità? E se sì, come e a che età? A rispondere a questa e ad altre domande simili, è la Dr.ssa Federica Faustini – psicologa del centro per la salute della donna B-Woman nell’articolo uscito il 7 marzo 2019 sul quotidiano “La Repubblica”.

Non esiste una legge che obblighi a comunicare ai figli la loro origine genetica, a differenza di quanto è previsto nei casi di adozione. “Dire o non dire a un figlio che è nato da una donazione di gameti è abbastanza controverso” spiega la psicologa Federica Faustini autrice, insieme alla collega Marina Forte, di “Un viaggio inaspettato. Quando si diventa genitori con la fecondazione eterologa”.

La psicologa spiega nell’articolo uscito su “La Repubblica” che, se si dovesse scegliere la strada di comunicare l’origine genetica ai propri figli, un aiuto ai genitori è indispensabile per trovare le parole giuste. Inoltre, continua la Dr.ssa Faustini, il momento migliore per parlarne al figlio è da piccolo già dai 4-5 anni, in modo tale che il bambino possa interiorizzare la verità sulla sua origine e “crescere con la concezione che non ci sia nulla di strano perché lo ha sempre saputo”. Ma quello che conta di più, conclude l’esperta è “la tranquillità e la serenità espresse dai genitori durante il racconto. Perché sono gli sguardi, le emozioni fatte trapelare durante il dialogo e le espressioni del viso, che per i bambini contano di più delle parole”.

La dottoressa Federica Faustini, psicologa del Centro B-Woman, conduce una consulenza gratuita  per valutare la storia della paziente e costruire insieme il programma più adatto alle sue esigenze.

Per maggiori info sui servizi di psicologia messi a disposizione dal Centro B-Woman, clicca QUI 

Contattaci al numero +39 3939259908 per prenotare una consulenza oppure inviaci una email a info@b-woman.it

 

Di seguito l’intervista alla dott.ssa Federica Faustini uscita sul quotidiano “La Repubblica” il 7 marzo 2019

 

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Vi riportiamo l’intervista che la Dr.ssa Federica Faustini ha rilasciato all’AdnKronos e ripresa da “Cliniche Fecondazione Eterologa” 

Quale destino per gli embrioni non impiantati

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L’84% delle coppie italiane donerebbe embrioni alla ricerca

Il divieto di fare ricerca sugli embrioni che non possono essere utilizzati a fini procreativi è uno degli ultimi ‘paletti’ rimasti della legge italiana in materia, la 40/2004, smantellata da una serie di sentenze della Corte costituzionale. Insieme all’accesso alle tecniche di Pma per le coppie single e gay, la donazione dei cosiddetti embrioni ‘sovrannumerari’ a scopi scientifici è però invocata da più parti nel nostro Paese, dove gli esperimenti sono consentiti solo su cellule importate dall’estero. Gli scienziati considerano questa strada una delle più promettenti contro una serie di malattie, e anche le coppie di aspiranti genitori esprimono una forte volontà a contribuire alla causa della ricerca. Lo dimostra uno studio condotto su 150 pazienti dei centri di fecondazione assistita Genera di Roma, che restituisce una fotografia chiara di cosa vogliono queste coppie: se gli embrioni non possono essere impiantati, devono poter essere utilizzati per la ricerca. La pensa così l’84% degli intervistati.

L’indagine, guidata dalle psicologhe cliniche Federica Faustini e Marina Forte, ha previsto la somministrazione di un questionario a pazienti con malattie genetiche o in cura per infertilità presso il centro specializzato nella Capitale. In tutto sono state contattate 832 persone, ma hanno risposto 64 uomini e 85 donne. Lo studio è ancora in corso e si punta ad arrivare a 200 intervistati, per poi procedere con la pubblicazione su una rivista scientifica.

Nonostante il tema sia già stato affrontato, infatti, questo è il primo lavoro che riguarda embrioni affetti da patologie genetiche o cromosomiche, non idonei quindi all’impianto, e la volontà delle coppie su quale debba essere il loro destino“, spiega Faustini all’AdnKronos Salute.

Se potesse decidere il destino dei suoi embrioni affetti da patologia genetica, quindi non utilizzabili ai fini procreativi, cosa preferirebbe fare?“, è la domanda che è stata rivolta a chi ha risposto al questionario. Ecco le risposte: l’84% si dice disposto a donarli alla ricerca scientifica (nel 29% dei casi per aiutare a guarire la malattia, nel 2% per non lasciarli congelati per sempre, nel 4% perché si tratta di embrioni non trasferibili altrimenti, nel 26% per promuovere la ricerca sulla cellula staminali e nel 39% per favorire il progresso della fecondazione in vitro). Il 7% degli intervistati vuole lasciarli crioconservati (il 10% perché vede la donazione come violazione della propria vita privata, il 20% perché ritiene che gli embrioni siano un aspetto della propria identità e il 70% per motivi legati al credo personale). Infine, il 9% preferirebbe estinguerli (il 31% per la sensazione di non avere il controllo su ciò che gli appartiene, il 15% per motivi legati al credo personale, il 46% perché teme che possano essere manipolati e l’8% perché non vorrebbe lasciarli in uno stato di abbandono).

Motivati da una spinta altruistica, dunque – evidenzia Faustini – la maggior parte dei pazienti sceglierebbe di donare gli embrioni patologici alla ricerca. Alcune coppie sono invece spinte da un loro credo personale (etico, religioso) nel voler mantenere a oltranza i loro embrioni in uno stato di fermo biologico, ‘congelando’ il problema a tempo indeterminato. La perdita di controllo sui propri embrioni e la paura della ‘manipolazione’ induce altri pazienti a optare per l’estinzione“.

E’ certamente da notare – commenta Laura Rienzi , biologa direttore dei laboratori Genera – come il nostro campione di studio sia composto da persone particolarmente predisposte alla donazione dei propri embrioni alla ricerca, perché sono coppie che hanno eseguito una diagnosi genetica preimpianto che ha evidenziato la presenza di una patologia. E quindi emotivamente sono spinte a voler contribuire al progresso scientifico“.

La ricerca di base – evidenzia l’esperta – è realmente l’unica arma a disposizione per comprendere e sperare di guarire severe patologie e limitarla, non consentendo di eseguirla sulle cellule embrionali, significa allontanare risultati che potrebbero essere davvero significativi. Le cellule staminali embrionali sono una risorsa importantissima per la ricerca: dato che sono quelle che danno vita a un essere umano, sono le uniche cellule in grado di generare qualsiasi organo o tessuto, perché contengono tutti i ‘segreti’ del differenziamento e dello sviluppo. E per questo il loro valore è inestimabile“.

 

FONTE:“Cliniche Fecondazione Eterologa” 

 


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Vi riportiamo l’intervista alla Dr.ssa Federica Faustini pubblicata, da Teresa Bergamasco, su “Donna Moderna” il 31 agosto 2017

 

Come dire a un figlio che è nato dall’eterologa

di Teresa Bergamasco

Ogni 100 bimbi nati in Italia uno è stato concepito grazie a un donatore con la fecondazione eterologa. Ma delle emozioni e delle domande che si pongono questi ragazzi si parla poco. Lo facciamo qui con l’aiuto di una madre e di una psicologa …

Sono oltre 3 milioni nel mondo, in continuo aumento, ma di loro si parla poco: sono i figli della fecondazione eterologa, la tecnica di procreazione assistita che utilizza ovociti o sperma di un donatore.

Tanto si discute delle implicazioni etiche e morali dell’eterologa, quanto poco ci si preoccupa dei suoi frutti, i bambini. Chi sono e cosa provano? In Italia è un mondo sommerso, visto che fino al 2014 la pratica era vietata dalla legge 40 e le coppie andavano all’estero.

Ora che non è più così, i numeri crescono rapidamente: secondo una Relazione presentata in Parlamento, solo nel 2015, 601 italiani sono venuti al mondo grazie all’eterologa. Negli Usa, dove la donazione è utilizzata da decenni anche da madri single o coppie gay, il popolo dei “cryokids” (si chiamano bimbi del freddo perché i gameti vengono congelati) è ben più numeroso e attivo. Tantissimi blog ne parlano e uno dei più seguiti è Confession of a cryokid, di una 27 enne newyorkese.

Il tema è anche arrivato sul grande schermo, con il documentario Anonymous father’s day, che racconta le emozioni di tre giovani nati da un donatore appunto anonimo, e in tivù, con il reality Generation cryo, trasmesso da MTV. E poi c’è la grande comunità del Donor sibling registry (donorsiblingregistry.com), un portale-database americano che raduna oltre 55mila tra donatori, genitori riceventi e figli e che ha il compito di supportare le persone concepite con l’eterologa. 

Il silenzio pesa

«Il primo dubbio delle coppie che hanno fatto ricorso all’eterologa è se dire al figlio come è nato. Molte mantengono il segreto per evitare che il ragazzo metta in crisi la propria identità o il rapporto con i genitori. Alcune temono il giudizio degli altri, visto che in Italia questa tecnica, nonostante sia sempre più usata, è ancora vista con diffidenza» spiega la psicologa Federica Faustini, consulente di un centro per la fertilità, che con la collega Marina Forte ha scritto “Un viaggio inaspettato.

Quando si diventa genitori con la fecondazione eterologa” (Imprimatur).

«Come per l’adozione, però, gli psicologi ritengono che sia importante dire la verità, il prima possibile». Secondo vari studi, infatti, i bimbi che apprendono come sono stati concepiti in età prescolare reagiscono bene, con curiosità o indifferenza, mentre chi lo scopre da adolescente, prova incredulità e rabbia verso i genitori che hanno taciuto a lungo. «Ognuno di noi ha bisogno di conoscere le proprie origini e di crescere nella verità.

I segreti possono minare il clima in famiglia e il rapporto di fiducia» aggiunge Wendy Kramer che, dopo esser diventata mamma grazie a una donazione di seme, ha fondato il Donor sibling registry. Appurato che, anche se scomoda, è meglio rivelare la verità ai “cryokids”, vediamo qual è il modo migliore per farlo. 

Le parole giuste

«Di solito si inizia a 3-5 anni, accennando a come nascono i bambini» spiega Faustini.

Si può parlare di ovetti e semini che, unendosi, danno vita a una pallina che cresce nella pancia della mamma. E poi aggiungere che a volte c’è bisogno di un aiuto esterno per riuscirci, con frasi tipo: “Alcune mamme non hanno abbastanza ovetti e usano quelli regalati da un’altra signora”. «Meglio parlare sempre di donatore e non di padre o madre biologici, per non creare confusione sui ruoli: quella persona ha fatto un bel gesto ma, i genitori sono quelli con cui lui cresce ogni giorno».

Anche quando a fare la scelta dell’eterologa è una madre single. «A 2 anni mio figlio mi ha chiesto: perché non ho un papà? È morto? Invece di inventare scuse, gli ho spiegato che ero sola ma volevo tanto un bambino e i dottori mi hanno aiutato, procurandomi un semino donato. Era troppo piccolo per avere pregiudizi: ha preso atto della notizia e quel semino è diventato parte di lui» le fa eco Kramer..

Bando alle paure

Il racconto della verità sul concepimento, però, non deve esaurirsi in una sola spiegazione, ma articolarsi in un dialogo che accompagna tutta la crescita del bambino.

A partire dai 10-12 anni si può iniziare a introdurre il concetto di Dna, spiegando cosa comporta essere figlio di un donatore.

«Capire che una parte di sé arriva da uno sconosciuto apre nuovi scenari, può dare risposte ma anche alimentare dubbi. C’è chi riesce finalmente a spiegarsi quei tratti fisici che non riconosceva allo specchio. E chi si preoccupa sulla salute del donatore: sarà sano o avrà malattie ereditarie?» continua Kramer. «Anche in questo caso, l’importante è che il genitore sia lì, pronto ad accogliere e affrontare insieme emozioni e timori. Il ragazzo va rassicurato sul fatto che i donatori sono sottoposti a visite e screening genetici, e va spinto ad apprezzare i lati positivi della donazione con frasi come: “Ecco da chi hai preso quegli splendidi occhi chiari!”».

E per evitare quello che gli esperti definiscono “spaesamento genealogico”, cioè un senso di confusione sulla propria identità, è bene ribadire che la genetica è solo una base, una sorta di pietra grezza, su cui ognuno modella la propria personalità, in base a esperienze, stimoli ed educazione.

Infine, molti genitori temono che il figlio, soprattutto durante l’adolescenza, possa sentirsi diverso dagli altri. Ma anche qui l’arma migliore è il dialogo.

«Alcune ricerche hanno dimostrato che le narrazioni familiari positive, in cui si descrivono le conquiste e le vittorie dei genitori, sono preziose per costruire l’autostima del ragazzo» concludono le due psicologhe italiane. «La fecondazione eterologa è una di queste: dimostra la capacità degli adulti di chiedere aiuto e di affrontare un percorso difficile, con flessibilità e resilienza. E, se raccontata così, farà sentire il figlio frutto di qualcosa di unico e speciale»..

«Alcune ricerche hanno dimostrato che le narrazioni familiari positive, in cui si descrivono le conquiste e le vittorie dei genitori, sono preziose per costruire l’autostima del ragazzo» concludono le due psicologhe italiane. «La fecondazione eterologa è una di queste: dimostra la capacità degli adulti di chiedere aiuto e di affrontare un percorso difficile, con flessibilità e resilienza. E, se raccontata così, farà sentire il figlio frutto di qualcosa di unico e speciale».

FONTE: “Donna Moderna” il 31 agosto 2017

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